Mostra personale "Ma la morte mai" - Biblioteca Angelica, Roma
Presentazione di Manuela De Leonardis
Lei non c’è più. E’ volata in un’altra dimensione l’11 luglio 2007. Con i nonni se ne va anche l’infanzia, si sa. Il calore di un abbraccio indulgente.
Quando Alessandro è nato, nonna Anna aveva 59 anni. Lui è uno dei quarantasei, tra nipoti e pronipoti, figli di quattro femmine e due maschi, a cui vanno aggiunti tutti quei bambini che teneva a balia, alcuni dei quali salvandoli dagli stenti. Fratelli e sorelle di latte, si chiamano.
Era nata ad Urbana (in provincia di Padova) nel 1911. Nome di battesimo: Pierina, ma tutti la conoscevano come Anna. Lì ha vissuto per tutta la vita, in quella casa di campagna costruita nell’Ottocento -pietra su pietra, legno su legno- dal padre di suo marito Rodolfo.
“Nonno Rodolfo andava sempre in bicicletta -come del resto la nonna- e fumava il sigaro.” -ricorda Alessandro Martinelli- “E’ morto nel ’90, ma anche quando era in vita quella casa l’ho sempre associata a lei. La stufa a legna era perennemente in funzione. C’era sempre una fetta di torta pronta per essere offerta, perché sapeva che non mancava mai chi passava a salutarla. La torta di mele, di noci, di uvetta… ma in paese era conosciuta soprattutto per la fantastica torta Margherita, che vinse persino un premio in occasione di una sagra annuale. Quando dormivamo lì, poi, era una festa. Tutti insieme nei lettoni. Ci preparava lo “schizzotto”, anche i “siguli” con il primo mosto uscito dalla pigiatura dell’uva che facevamo con i nostri piedi di bambini, di ragazzi. Nonna Anna non ci sgridava mai. Aveva la battuta pronta e un proverbio -citato sempre in dialetto- adatto per ogni occasione, seguito -puntualmente- dal rafforzativo “xe verità” (è vero). Era generosa. Lo è sempre stata, anche quando i tempi erano ancora più difficili, come durante la guerra, quando era sulle sue spalle che gravava il peso della famiglia. Aveva sempre qualcosa da dare a chi glielo chiedeva: frutta, verdura, farina, uova... ma poteva diventare addirittura cattiva se sentiva insidiati i suoi affetti.”.
Nella casa, il fotografo, torna nel giugno scorso -per due giorni consecutivi, durante un fine settimana- quando lei non vi abita più già da tempo. Da otto anni viene assistita e curata nella casa di riposo di un paese vicino, Merlara.
“Portatemi a casa mia”, ripeteva.
Da quando lei è lì, nessuno della famiglia è mai tornato nella casa, con l’inconscia consapevolezza -forse- che le mura non hanno vita propria. Anche per pudore, certo, e per rimandare ad altri tempi il dolore, le decisioni del dopo.
Tutto, perciò, è rimasto esattamente come lo ha lasciato la nonna, quel giorno di otto anni fa. Le sue pantofole, la poltroncina di vimini -quella dove sedeva mentre sferruzzava calze di lana, dono per ogni nipote- la legna nel cestino, i panni stesi sullo stendino, il bollitore di alluminio... proprio come se, da un minuto all’altro, sarebbe tornata.
“Ora la casa è vuota, però parla ancora di lei.”.
Le foglie secche si accumulano davanti al fienile, le ragnatele abbracciano gli attrezzi nel portico, non ci sono più salami messi ad essiccare nel buio della cantina, né le botti piene di vino. Niente galline, tacchini, oche, conigli a spasso per l’aia. Non ci sono voci, non c’è profumo di cucinato. Il silenzio avvolge gli oggetti.
Non è il rimpianto di un ciclo che si esaurisce, quanto -piuttosto- un velo di tristezza. Il passato -ingombrante che sia- ferita per chi resta. Le porte, le finestre, il letto, la sedia, la stufa a legna... ogni cosa racconta un frammento della storia. Un mondo contadino di vita vissuta nel sacrificio, fatta di valori sani, tradizioni, proverbi e saggezza.
L’occhio del fotografo coglie tutto questo, cercando di mettere da parte le emozioni più intime. Ma quelle -un po’ ribelli- sfuggono al controllo, esaltate dai contrasti cromatici, dal taglio dell’inquadratura. Sono circa 200 gli scatti in digitale che l’autore seleziona e reinterpreta nella modulazione del bianco e nero. Non è solo una scelta stilistica. Fasci di luce, grigi vibranti, bianchi e neri contrastati. Emozioni che affiorano in tutta la loro genuinità, dirette.
Durante quel fine settimana di giugno -lungo, intenso- Martinelli torna due volte, sempre da solo, nella casa di campagna. Tra una visita e l’altra va a trovare la nonna a Merlara. Lei è sulla sedia a rotelle, lo sguardo è lucido, come la mente. Lo accoglie con serenità, come sempre sorridente. “Vegna tanti guai, ma la morte mai”, dice al nipote, quasi fosse un testamento. Un inno alla vita, il suo. Che arrivino pure tanti guai, ma mai la morte.
E’ l’ultima volta che Alessandro incontra la nonna. Quella foto con le silhouette nere degli angeli -nel cimitero di Urbana- messi lì ad indicare vecchie sepolture a terra, è l’unica ad essere stata scattata dopo la sua morte.
“Lei è un angelo.”.
Mentre si chiudeva la porta di vetro e legno alle spalle, un mese prima, sapeva già che non l’avrebbe più rivista nella sua casa. Alessandro piange -finalmente piange- lacrime liberatorie, quando sale sull’automobile.
Nello specchietto retrovisore la sagoma va dileguandosi. Mura come tratti somatici di un volto, crepe come solchi di rughe.